Lettera ad un “figlio” che non c’è più: Giuseppe Bini
Un saluto in punta di piedi da tutta la redazione di RCC
Come si fa a scrivere ad un figlio che si avrebbe voluto avere e che oggi, giorno della Liberazione, se n’è andato, liberandosi dalle sue troppe sofferenze? Ad un figlio morto a 48 anni, quando cioè la morte dovrebbe essere, anche nei pensieri, ancora lontanissima?
Giuseppe era per me il figlio maschio che avrei voluto. E lui mi ripagava e me lo confermava anche nelle ultime parole che mi scriveva … Che dettava. Perchè le sue mani, così veloci a scrivere articoli e articoli, ad inventare parole: perché, a volte, quando si lavora davvero, come giornalisti, in redazioni prive di tutto, con la paga di forse un quinto (quando ti pagano!) dei giornali paludati che vivono come tanti altri media, per lo più di sovvenzioni statali, mentre noi, quelli delle piccole Tv locali, quelli delle gestione separate, quando hai una partita Iva e fatturi, perché la maggioranza dei collaboratori sfruttata da tantissime testate lavora in nero, a parte gli articoli necessari per ottenere la Tessera, non veniamo neanche considerati giornalisti (con il beneplacito degli organi istituzionalmente preposti a controllare) e dobbiamo anche inventare, perché magari siamo in uno o due a dover fare interviste, scrivere gli articoli e leggerli in diretta…le sue mani si erano fermate!
Dopo che avevano allestito assieme alle mie, tanti e tanti tg. Tante e tante trasmissioni. E naturalmente, non c’era da fare solo questo nelle redazioni “povere”. Ma andare alle conferenze stampa, a fare il giro di nera, a seguire partite e mostre e avvenimenti… E sempre in due, tre persone. Al massimo. Perche altri non ce n’era. In “redazioni” dove spesso manca non solo il personale, ma persino le telecamere o la cancelleria. E che quando chiudono, chiudono e non ci sono TFR o vertenze da diverse centinaia di migliaia di Euro che ti permettono pensioni da soloni. E non c’è neanche, visto che il più delle volte si lavora a fattura, pensione! E qui si fanno i salti mortali e si diventa veri giornalisti.
Come Giuseppe Bini, il figlio maschio che non ho mai avuto, e che era (faccio finta di non aver capito bene una frase letta su un “giornale” locale!) un Giornalista con la “G” maiuscola, capace di una visione politica che ho visto in pochi, a Lucca, in quasi 50 anni di giornalismo. Giuseppe che aveva iniziato con un altro genio dell’informazione, quell’Abramo Rossi, a cui da bimbo insegnavo (ma lui in elettrotecnica ed elettronica mi avrebbe presto doppiato!) a usare il baracchino, e che per primo gli aveva messo un microfono in mano. Un giornalista dotato di inventiva, ma anche di quella parte pratica che a me, sognatore di mondi che non esistono, assai diversi da quello sempre più triste e problematico in cui Giuseppe ed io ci siamo trovati a lavorare per informare, coscienti non solo di cosa eravamo capaci, ma dei mezzi che avevamo. E se qualcuno, dall’alto, ci può aver fatto dei rimproveri o osa farne oggi che Giuseppe, lo ripeto: grande giornalista! non c’è più, possiamo fare una controprova: far fare a chi ha fatto o fa critiche, dirette per quattro anni sotto la neve o la pioggia, senza telecamere “vere”; magari supplendo con telefonini o comprando di tasca nostra schedine per registrare o le batterie e saper scrivere di politica, come di sport o di cultura!
Ecco: in quelle battaglie vere e proprie, con la spinta che solo una passione enorme, ti fa sostenere, io ho imparato a voler bene a Giuseppe, non solo perché faceva ottimamente il proprio lavoro, ma perché lo faceva con l’entusiasmo che avrei voluto trasmettere ad un figlio! perché non c’era altro e non avevamo altro: neanche ristoranti che ci ospitavano gratis facendo marchette invece di pubblicità (con l’Ordine dei Giornalisti che non vede o non vuol vedere). O forse non vede, perché non vede neanche l’obbligo di essere iscritti, noi Giornalisti, Pubblicisti o Professionisti non importa, nella Regione dove si svolge prevalentemente il nostro lavoro e invece si è iscritti ad altri Ordini Regionali, dove si hanno santi in Paradiso?
E sopra la sua tomba, porterò quella Tessera che per lui era un oggetto sacro: “Una cosa che non arriverò mai a prendere!” mi diceva. La porterò perché lui la meritava più di tanti altri, ma che non ha avuto il tempo di vedere, ma che io ho ottenuto dall’Ordine della Toscana e non ho fatto a tempo a consegnare a Giuseppe, che da lassù, nel Purgatorio dei Giornalisti, che equivale al Paradiso, visto che la maggioranza di noi, è destinata all’Inferno, mi perdonerà!
Un giornalista eccezionale. Senza raccomandazioni, perché nelle piccole redazioni, dove non si guadagna niente o quasi e si lavora per quattro, non c’è nessuna ressa per entrare, nessuno corre o sgomita per andarci.
Una redazione la “nostra” quella di DiLucca-DiTv, che alla fine del 2019 chiuse. Così di colpo. Come spegnere la luce. Troncando il lavoro di almeno 4 persone che vivevano solo di quello. E a seguire, le vicende giudiziarie legate all’acquisto, proprio attraverso la TV, scelta scellerata assieme a tante altre, di cui Giuseppe era anche Amministratore Unico, della Lucchese ed il suo successivo fallimento, gli portò non pochi dispiaceri e sofferenze che certo non hanno fatto bene alla sua salute che precipitò subito dopo!!
Chiusura di una televisione che varrà pure una notizia!! Invece, chiuse senza una parola, un articolo di quei colleghi che oggi parlano, per forza! della scomparsa di Giuseppe. Senza un sindacato che dicesse una parola. O un collega che ci offrisse uno straccio di lavoro per continuare a mangiare. O una parola di conforto di un sindaco o di un assessore (pure trasmettevano in diretta, con enorme successo, i consigli comunali di Lucca e di Capannori).
Senza l’intervento, né dell’Ordine dei Giornalisti o dell’Associazione Stampa: il silenzio totale sulla chiusura di una Tv interregionale! Non importa se eravamo bravi o poco bravi. Non una riga dei giornali nazionali che pure a Lucca hanno costosissime Redazioni o TV, locali ma di lusso, che hanno decine e decine di dipendenti e collaboratori: tutti però oggi parlano di lutto nel giornalismo, della scomparsa di un “giornalista”. Si è vero: era un bravissimo e poliedrico giornalista. Ma lasciato però solo nella sua angoscia e nella sua malattia, quando era buttato fuori dal suo lavoro e certo non per sua colpa o demerito!
A Giuseppe, la SLA aveva bloccato quelle mani favolose e intelligenti a scrivere, per salvare le quali ero andato anche ad intervistare i medici più avanzati in Italia, nella cura di questa maledetta malattia. A Torino. Dove non mi dettero speranze.
Quelle mani nervose e a me care, si erano fermate dopo le gambe. Ma non il suo bellissimo volto e i suoi occhi vivi. Fino alla fine, che si esprimevano attraverso una voce flebile, che faticava a riaversi, tra un distacco e l’altro dalla macchina che lo aiutava a respirare già da tempo.
Ma a volte siamo riusciti, in questo tempo, a parlare “a lungo”, come facevamo in passato, di questo mondo che avevamo visto peggiorare così tanto, assieme.
Mi sento in colpa perché negli ultimissimi tempi non ce l’ho fatta più ad andare a trovarlo.
Ma quando, a Natale, avevamo acceso l’alberello che gli avevo portato, eravamo scoppiati a piangere assieme ed ero stato male per una settimana. Perché il dolore più grande al mondo, è vedere spengere un figlio che professionalmente si riconosce tale, perché uguale a noi nel sentire.
Perché la nostra è professione che non può, quando è vera, e non lo è purtroppo per molti, essere scissa dalla vita.
Per questo, nella decadenza di oggi, nel disagio mondiale che viviamo, nella pur distorta, ma aumentata coscienza delle cose, la nostra categoria ha perso sempre più prestigio.
Giuseppe che adorava il giornalismo, come mezzo non solo per informare gli altri, ma per conoscere il mondo e quindi noi stessi, lo coltivava come una “religione” (l’altra era stata proprio la squadra ed il tifo per la Lucchese, che si era così malignamente legata al suo tragico destino!) e con Giuseppe è morta una gran parte di me!
Daniele Vanni
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