I Bronzi di Riace al MET: ricostruzioni troppo puntuali per non destare sospetti

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Bronzi di Riace a colori. A 50 anni dal ritrovamento, in concomitanza con eventi in corso nella Penisola, al Metropolitan Museum di New York il 5 luglio è stata inaugurata una mostra dedicata alla policromia delle sculture antiche intitolata “Chroma Ancient Sculpture in Color“.

Una mostra che ha il sapore amaro della beffa e che desta molte preoccupazioni sul reale patrimonio archeologico italiano in terra americana.

Mentre a Reggio Calabria si celebra un evento che dovrebbe portare risonanza al territorio, in realtà si rivelano preoccupanti coincidenze con quanto da me sostenuto nel Podcast sul “Giallo dei Bronzi di Riace” pubblicato in Art&Crimes oltre un anno fa. L’esposizione rimarrà aperta fino al 26 marzo 2023 e mostra in tutta la sua chiarezza la preponderanza di mezzi economici e divulgativi dei Musei Americani su quella dei più piccoli musei nostrani. Mentre in Calabria ci si accontenta di vederli proiettati sul palazzo della Regione, al MET di NY li vediamo perfettamente ricostruiti in tutti i loro attributi coloristici e, cosa assai sospettosa, iconografici.

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Queste ricostruzioni dovrebbero cioè stare a Locri e non a New York: hanno il sapore di una colossale beffa. Il particolare rilievo dato proprio alle due copie perfette dei Bronzi di Riace, ricostruiti con gli arredi che dovevano avere originariamente e realizzati proprio in bronzo con sofisticate tecnologie, sono troppo puntuali per non destare sospetti.

Non hanno il sentore di “ipotesi ricostruttive”

I loro attributi simbolici sono troppo precisi. I loro paramenti rimandano cioè a personaggi ben precisi del “Mito Greco”. Riprendendo gli studi del Prof. Paolo Moreno, basati sul restauro delle due statue, e quindi su dati tecnici rigorosi, ho sostenuto la fondata ipotesi che facessero parte del gruppo Scultoreo dei “Sette a Tebe” presente nella Piazza di Argo e celebrante l’impresa fallimentare di un gruppo di guerrieri che cercarono di conquistare la città di Tebe. Un testo di Pausania inoltre confermava questa ipotesi, insieme alle varie rappresentazioni del mito presenti su vasi greci e copie in marmo romane. Si trattava cioè di un gruppo composto da almeno quindici statue, dato che vi erano presenti anche i loro figli (epigoni) che riscattarono il fallimento ripetendo l’impresa con successo. In particolare io mi soffermavo sull’altorilievo di un tempio etrusco a Cerveteri coevo al complesso scultoreo (Tempio A di Pyrgi).

Mito dei Sette a Tebe

Le pose e gli atteggiamenti rimandano al mito dei “Sette a Tebe” e nel gruppo erano rappresentate anche le divinità che parteciparono allo scontro come rappresentato a Pyrgi. Sia che venissero direttamente da Argo o da una replica di Delfi le statue furono trafugate durante la conquista romana dell’Acaia e naufragarono nelle acque antistanti la bella Riace.

La ricerca del prof. V. Brinkmann, capo del Dipartimento di Antichità del Liebieghaus Skulpturensammlung di Francoforte sul Meno, ha consentito di ricostruire con colori e materiali originali tutte le più importanti opere d’arte del mondo classico ma per i Bronzi di Riace ci volevano sicuramente i paramenti originali, o almeno delle foto, perché rimandano a una iconografia troppo complessa per essere ipotizzata. Il Bronzo A, detto il giovane, per le sue labbra rosse vivaci e lo sguardo feroce rimanda a Tideo che divorò il cranio del rivale Melanippo e presenta proprio questa caratterizzazione negli arredi che lo accompagnano come del resto il bronzo B, detto il vecchio, che rimanda al profeta di Apollo Anfiarao.

L’orrendo atto di antropofagia costò a Tideo il dono dell’immortalità che Atena stava per dargli. E’ stato ricostruito il rosso per i capezzoli e le labbra di Tideo a sottolineare il suo atteggiamento spietato e bestiale e l’argento della sua dentatura pronta a divorare il cranio di Melanippo. La frenesia muscolare della statua conferma questa ipotesi e le fa da contraltare la posa calma e rassegnata del profeta Anfiarao che era a conoscenza della sua prossima morte. La ricostruzione di un elmo di tipo corinzio è intuitiva dato che si trattava di guerrieri opliti del V° sec. a.C. e lo stesso vale per la lunga lancia che la postura di uno dei due guerrieri suggerisce senza scanso di equivoci. Anche uno scudo da oplita era intuibile date le sue caratteristiche ben note ma le intuizioni si fermano qui e comunque sono troppo precise anche queste. Il Re di Argo Anfiarao, la statua del guerriero più vecchio, ha un elmo totemico a guisa di lupo bianco, animale simbolo di Apollo e lo scudo a forma di mezzaluna crescente, simbolo della controparte oracolare femminile Ecate: le due divinità erano spesso abbinate nei luoghi oracolari. Apollo era tra l’altro nato nella Terra della Licia (Turchia) che nel nome porta la stessa radice del nome greco del Lupo (Likos). Perchè, fra le tante armi, Anfiarao ha nella mano destra proprio una doppia ascia? Un’altro simbolo di Apollo.

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Queste non sono ipotesi ricostruttive ma indicano una precisa conoscenza iconografica degli oggetti: sicuramente sono stati visti gli originali. L’apparente finalità della mostra è scientifica ma è in realtà l’ennesima offesa al nostro patrimonio culturale, mentre da noi si festeggiano i 50 anni della scoperta dei bronzi con spettacoli, concerti, e fiumi di parole.

La mostra illustra nuove scoperte sui colori delle antiche opere d’arte classica, scoperte esplorando le pratiche e i materiali utilizzati dagli artisti dell’epoca. I metodi scientifici usati per identificare i colori antichi, e approfondire il significato che all’epoca avevano quei colori, è apparentemente partito dal dato scientifico: è in realtà il dato iconografico e simbolico che ha identificato il colore e non viceversa. Più che festeggiamenti c’è da preoccuparsi e seriamente. Mi riferisco poi alla documentazione dell’epoca riguardante una terza statua a braccia aperte: intenta a lanciare un giavellotto è assimilabile a un’opera in stile severo che, per per postura è analoga alla raffigurazione sull’altorilievo del Tempio A di Pyrgi e rappresenta Zeus intento a lanciare un fulmine per punire la bestemmia di Capaneo, salito troppo in alto sulle Mura di Tebe a sfidare gli Dei.

Zeus di Capo Artemisio.

Mi riferisco allo Zeus di Capo Artemisio, attribuito a Calamide e coevo ai Bronzi di Riace. Del V° sec. a.C., la statua rappresenta proprio una divinità (cronide) intenta a scagliare un fulmine o un tridente: come modello l’artista si è servito di un lanciatore di giavellotto e conferma le ipotesi sul terzo bronzo, intento proprio a scagliare un’arma. Come per i Bronzi di Riace, anche per lo Zeus di Capo Artemisio la centralità è il movimento e una raffinata resa dell’anatomia e delle proporzioni umane. In stile severo sono anche i Bronzi di Riace e ben notiamo che la resa sintetica dei capelli differisce da quella minuziosa delle barbe, non in linea con lo stile e indicante la presenza di elmi in entrambi i casi.

E’ facile intuire la presenza di elmi, di lance, spade e scudi ma, lo ribadisco le rappresentazioni sono troppo puntuali col mito dei “Sette a Tebe” per non destare sospetti e pensare che una terza statua, simile alle Zeus di Capo Artemisio, sia custodita in qualche caveau di oltreoceano insieme a vari splendidi arredi che non vedremo mai in Italia.

Nemmeno vedremo le riproduzioni delle statue presenti al MET. La loro esposizione non è un tributo per i 50 anni della scoperta dei Bronzi ma sono una sfida: non festeggiano nessun ritrovamento ma la prepotenza culturale e autoritaria dei grandi musei americani.

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